L’ospite di questo secondo appuntamento con lo Speakers’ Corner – la rubrica che nasce con la finalità di connettersi al dibattito sull’Open Science – è Gianfranco Pacchioni*, cui siamo grati per avere offerto spunti preziosi sui principi etici della scienza, scienza che “è il pilastro del sistema economico contemporaneo”.   

D. Lo scenario della comunicazione scientifica è in rapida trasformazione. Partendo da alcuni dati significativi – numero di riviste in Scopus: 44.737; in Web of Science: 24.744; in DOAJ, Directory of Open Access Journals: 19.646; titoli di periodici elettronici presenti nella biblioteca di UniMiB: 84.375 – possiamo sostenere che la Overproduction of Truth (…) in modern science (mutuando dalla traduzione del titolo di un suo libro) è arrivata a un punto di non ritorno? Quanto tutta questa produzione scientifica contribuisce all’avanzamento della conoscenza e quanto genera rumore di fondo?

Questo è un grande problema: la produzione scientifica è esplosa a causa di diversi fattori. Gli attori sono aumentati con l’apertura verso i paesi emergenti. Con il cambio di secolo, paesi come la Cina, l’India, il Sud-est asiatico hanno cominciato ad affacciarsi alla scienza. Il numero dei ricercatori, già in crescita dall’inizio del Novecento, è aumentato esponenzialmente, in modo più rapido rispetto alla crescita della popolazione. Ovvio che più ricercatori generano più produzione scientifica e non deve sorprendere il fatto che più lavori generino più riviste scientifiche: una catena che ha dato luogo a un vero e proprio mercato (rifacendomi, anche io, al sottotitolo del mio libro: “Scienza, quo vadis? Tra passione intellettuale e mercato”).

La scienza è il pilastro del sistema economico capitalista contemporaneo perché è grazie a essa che si ottengono le innovazioni che, a loro volta, generano un’aspettativa di crescita dell’economia. La scienza – da cui discende poi anche tutto il discorso sull’Open Science – è fondamentale e non si può pensare che essa abbia meccanismi di funzionamento che prescindano da quelli del contesto in cui è immersa, ovvero in un sistema fortemente competitivo.

Oggi il livello di competizione è altissimo, si pensi all’innegabile spinta a pubblicare, e mi riferisco per esempio ai requisiti utili per partecipare a concorsi e gare di enti finanziatori. Recentemente sta cominciando a cambiare qualcosa, ma di fatto, qualità e quantità delle pubblicazioni sono informazioni imprescindibili per l’avanzamento di carriera e l’ottenimento di finanziamenti per l’attività di ricerca.

Questo eccesso di pubblicazioni attualmente crea parecchio rumore di fondo, il che non vuol dire che non avanzi la conoscenza, tutt’altro, ma non necessariamente i veri e profondi cambiamenti cui stiamo assistendo approdano alla pubblicazione. Alcune radicali e profonde innovazioni che produrranno grandi cambiamenti sociali in un prossimo futuro non sono per nulla “aperti”, non sono trasparenti e nemmeno vengono pubblicati perché avvengono presso grandi aziende private, dalle enormi capacità di investimento

La scienza aperta è un sacrosanto principio che si applica alla ricerca pubblica, ma che non riguarda ciò che avviene nella ricerca privata. Ed è per questo che trovo un po’ strabico l’atteggiamento sull’Open Science. La ricerca privata, fino a pochi anni fa, era condotta da aziende che si dedicavano al miglioramento di un prodotto di mercato, uno pneumatico, un farmaco, una lampadina. Adesso gli attori si chiamano Google, Microsoft, Meta, Amazon, hanno capacità finanziarie immense e stanno investendo pesantemente sulle tecnologie del domani, ma noi non ne sappiamo nulla.

In questo contesto il dettaglio paradossale sta nel fatto che, se prima aziende come Bayer o come ENI, per accedere alla conoscenza chimica e portare avanti la propria ricerca, dovevano dotarsi di apposite biblioteche e pagare costosi abbonamenti a riviste specializzate, quindi contribuendo al costo di gestione delle pubblicazioni, adesso, i ricercatori di queste aziende accedono gratuitamente alla letteratura in Open Access. Il costo delle pubblicazioni, che prima ricadeva in parte sul privato, adesso ricade interamente sul pubblico, e questo resta un tema di cui non si parla mai.  

È palese che l’Open Science offra tantissimi vantaggi ai paesi emergenti: è un obiettivo nobilissimo; quando, però, leggo dal documento del Programma nazionale per la ricerca 2021-2027, Piano nazionale per la scienza aperta: “la scienza aperta favorisce lo sviluppo equo delle potenzialità di tutti i ricercatori, creando uguali opportunità di accesso a pubblicazioni, dati e altri risultati, indipendentemente da nazionalità o appartenenza istituzionale”, mi viene qualche dubbio. L’uguale opportunità non sta solo nel potere leggere un paper… è un po’ come sostenere che gli uomini sono nati tutti uguali e hanno tutti diritto ad avere lo stesso standard di vita, una frase condivisibile, ma poi non fornire gli strumenti affinché questo avvenga. Così resta una frase puramente teorica. Uno dei problemi principali dell’Open Science sta proprio nella difficoltà di “mettere a terra” i principi teorici. Mancano le azioni concrete, le pratiche e la misurazione dei risultati.

Sul tema delle pubblicazioni e del loro costo c’è molta confusione e, a proposito, vi racconto un aneddoto: tempo fa ho partecipato a una conferenza in cui l’oratore mostrò un grafico per documentare l’aumento enorme della spesa totale per le pubblicazioni per le istituzioni pubbliche, ovvero il costo che le biblioteche sostengono. Il grafico mostrava un andamento continuo e costante verso l’alto. Ma è ovvio che, se aumentano gli addetti ai lavori, aumentano le pubblicazioni, aumentano le riviste e aumentano anche i costi relativi. Il costo totale va raffrontato al numero totale di autori e di lavori prodotti, altrimenti il dato risulta fuorviante. Siamo passati dall’ordine delle decine di migliaia di pubblicazioni all’anno a inizio Novecento, ai tre milioni attuali; questo vuol dire più editor, più riviste, più siti web da mantenere, più corrispondenza con gli autori, più referee da trovare: chiaro che i costi sono aumentati!

D. Di accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche abbiamo iniziato a discutere in Bicocca almeno dal 2008, quando è nato BOA, il nostro archivio istituzionale. All’epoca il messaggio ai ricercatori era netto e allineato alla tendenza generale del movimento Open Access: non vogliamo farvi cambiare abitudini di pubblicazione, vi chiediamo solo di depositare una copia del vostro articolo anche in BOA (cioè perseguivamo la Green road, scelta poi confluita anche nella policy di Ateneo sulla scienza aperta).
Oggi il movimento per l’Open Access sembra più concentrato sulla transizione verso nuovi modelli commerciali che però gli editori non hanno mai realmente sostenuto: i c.d. contratti trasformativi e il passaggio dal pay per read al pay per publish sembra aver portato finora soltanto a un aumento degli esborsi da parte delle biblioteche accademiche. Come vede questa concorrenza di modelli economici e, in generale, la sostenibilità dell’Open Access per un’istituzione pubblica come la nostra?

Faccio una premessa. Ogni ricercatore trae soddisfazione dal proprio lavoro, dal riconoscimento del valore della propria attività da parte dei colleghi, dalla possibilità di accedere a un finanziamento o anche semplicemente perché riesce a pubblicare su una rivista di prestigio: così come un cantante lirico ambisce a cantare alla Scala, e non al teatro parrocchiale, anche uno scienziato vuole “cantare alla Scala”, ossia pubblicare su riviste di spicco. Questo è il meccanismo che è insito in ogni ricercatore sin dai primi passi della carriera accademica. Questo aspetto psicologico non è mai entrato nella logica della discussione su nuovi modelli di comunicazione dei risultati scientifici. Certo, pubblicare in Green Open Access sarebbe stata forse la via più semplice per rendere aperte le pubblicazioni, senza troppe complicazioni. Ma alcuni modelli proposti, anche se teoricamente validi, faticano ad affermarsi per le ragioni che dicevo prima.  

Ritornando al Piano nazionale per la scienza aperta, si parla della piattaforma “Open Research Europe”, ideata perché vi si pubblichino articoli gratuitamente e referati in Open Access. Tale piattaforma è stata inaugurata nel 2021. In due anni vi sono stati pubblicati, per tutti i campi del sapere, solo 420 paper (in Medicina 68, in Natural Sciences 110). Questo è il numero di manoscritti che riceve una rivista media in circa una settimana. È chiaro che lo strumento non ha suscitato nella comunità l’interesse sperato e che i ricercatori non hanno trovato la piattaforma attrattiva. Sarebbe opportuno chiedersi il perché.

D. Si vanno diffondendo a livello internazionale iniziative di riforma dei meccanismi di valutazione: la tendenza è un graduale abbandono degli indicatori quantitativi in favore di valutazioni qualitative basate sul giudizio dei pari, e una maggiore inclusività in relazione ai prodotti oggetto di valutazione: non più solo paper ma anche iniziative di terza missione e impatto sociale, ad esempio. Anche in Italia l’ultima VQR ha visto spostarsi in favore della peer review tutte le aree scientifiche (ancorché in taluni casi coadiuvata dall’utilizzo della bibliometria). Che impatto ritiene che queste iniziative di riforma possano avere sulle abitudini di pubblicazione dei ricercatori? Di nuovo, quali vantaggi possiamo aspettarci da questo shift e a quali possibili controindicazioni è necessario prestare attenzione?

C’è bisogno di nuovi paradigmi per la valutazione, ma le cose sono molto diverse se si parla di valutazione di individui o di istituzioni. In tempi di Data Science, per le valutazioni globali, ritengo sia sensato che la valutazione resti basata su dati numerici: reputo che, a fronte di quantità ingenti di informazioni da esaminare, meno il fattore umano entri come criterio, meglio sia. Inoltre, c’è un serio problema di costi: valutare grandi enti (università, enti di ricerca ecc.) con panel di valutazione produce risultati migliori, ma ha anche costi elevatissimi. Il discorso cambia nelle valutazioni degli individui: sono d’accordissimo sul fatto che i numeri non siano sufficienti. Ma il cambiamento è difficile da recepire. Sempre dal Piano nazionale per la scienza aperta si legge: “A livello europeo (ERC, alcuni importanti Atenei) si è avviato il superamento degli indici di impatto editoriale nella valutazione dei progetti di ricerca e delle carriere accademiche”. Quando, ultimamente, sono stato membro delle commissioni di diversi concorsi nazionali, mi sono ritrovato obbligato a utilizzare gli indici, incluso persino l’Impact Factor delle riviste per valutare l’individuo, procedura in contrasto con quanto riportato nel summenzionato documento. Anche qui siamo di fronte a un obiettivo condivisibile, ma poi bisogna agire di conseguenza.

Il problema della valutazione è che bisogna tenere insieme mondi molto diversi tra di loro: un chimico che pubblica un lavoro ha a che fare con un dato tendenzialmente oggettivo; il lavoro di un sociologo, magari inappuntabile dal punto di vista metodologico, può finire nelle mani di un revisore che appartiene a una diversa scuola di pensiero e ne dà una valutazione negativa. Chiaro che per molte aree del sapere la questione non è banale, e resta principalmente una questione di etica del revisore.

Lo spostamento della valutazione dal mero punto di vista quantitativo bibliometrico – che tutto sommato ha retto finora – a criteri qualitativi (si pensi, per esempio, ai CV narrativi) può valere in contesti in cui vengono esaminati pochi progetti o individui. In occasione dell’ultima VQR, a seguito di valutazioni soggettive di prodotti presentati, non sono stati rari i casi di declassamento di pubblicazioni scientifiche che, in base alle valutazioni bibliometriche, erano considerati eccellenti o molto buoni. Questa modalità rende l’esito dell’esame piuttosto aleatorio, molto dipendente dai criteri di valutazione adottati da questo o quel panel o da questo o quel revisore.
L’altro aspetto da considerare è che quando i parametri e gli indicatori da considerare diventano troppi, si sortisce l’effetto di un appiattimento, e temo che proprio questo sia l’obiettivo di molti.

Dalla mia esperienza di prorettore alla ricerca, nella precedente governance, sono uscito con una forte convinzione: tutti parlano dell’importanza della valutazione, ma nessuno la vuole veramente; a molti fa paura. La valutazione però è importantissima, meglio una valutazione fatta male che nessuna valutazione: il suo scopo è quello di dare lo stimolo a migliorarsi, è sempre un momento di riflessione prezioso. Purtroppo prevale sempre l’aspetto dei ranking. Il vero problema è che una buona valutazione richiede solidi principi etici, ma su questo fronte siamo ancora indietro rispetto ai paesi anglosassoni, dove la tradizione della valutazione è molto radicata. A volte sembra prevalere la tendenza a manipolare il sistema, a piegarlo a proprio favore, e se questo è l’atteggiamento etico dominante, non c’è regola o meccanismo che tenga.

D. Che impatto avrà, o sta già avendo, l’Intelligenza Artificiale (IA) sulla comunicazione scientifica? Hanno avuto risalto casi di articoli che vedono, tra i co-autori, anche agenti di intelligenza artificiale. Un risalto ancora maggiore hanno ottenuto i casi di IA come autore non dichiarato, e quindi di frodi attuate grazie all’utilizzo di generatori seriali di paper utili ad accumulare citazioni fittizie. D’altro canto, quale migliore alleato dell’IA per scovare i falsi d’autore su migliaia o centinaia di migliaia di articoli in maniera rapida e mediamente accurata? Insomma: l’IA è qui per restare? Se sì, quali sono i benefici e quali i pericoli per la scienza?

Pare che gli editor delle riviste siano molto preoccupati perché diventa sempre più difficile riconoscere articoli creati con sistemi di intelligenza artificiale. In particolare, allarma il fenomeno dei paper mills, articoli scientifici fraudolenti fabbricanti da ditte che li generano a pagamento usando IA. Le riviste, anche quelle di alto profilo, fanno sempre più fatica a intercettare questo tipo di lavori, pur avvalendosi di software sviluppati ad hoc.

Sarà sempre più importante sapere che la pubblicazione possa avvalersi di una validazione da parte di revisori veramente competenti, in grado di condurre uno screening molto robusto de risultati presentati. Oggi un ricercatore non può leggere tutto quello che esce nel proprio settore, per cui è inevitabile che si concentri su risultati apparsi su riviste di elevata reputazione, di riferimento per il campo di ricerca, in cui gli articoli sono ben selezionati e rispondono a meccanismi di valutazione e revisione rigorosi.

D. Open Data e riproducibilità della ricerca: si moltiplicano casi di falsi e ritrattazioni. L’ultimo caso che ha destato scalpore riguarda il presidente di Stanford, che ha rassegnato le dimissioni per “research misconduct”, dovuta alla falsificazione dei dati utilizzati in alcuni articoli scientifici. Quanto è urgente sostenere una politica di apertura dei dati della ricerca come garanzia di riproducibilità e affidabilità della scienza? La pubblicazione in accesso aperto dei dataset può incrementare la fiducia in una scienza talvolta vista come opaca e autoreferenziale oppure rappresenta una illusione di democratizzazione di ambiti che sono – e devono rimanere – necessariamente specialistici, e perciò impenetrabili al cittadino medio?

La ritrattazione non va vista in modo negativo, si tratta di un meccanismo di verifica della scienza. Le retraction sono una dimostrazione di robustezza del sistema. Ritengo che i lavori vengano ritrattati se sono importanti: se sono di scarsa rilevanza, è inutile ritrattarli e… oggi, gran parte dei lavori sono scarsamente utili, quando non del tutto inutili.

Il problema della riproducibilità è in forte crescita, soprattutto per quanto riguarda i lavori clinici, che hanno tassi di riproducibilità bassissimi. I dati aperti, verificabili, controllabili, rappresentano un elemento di trasparenza e sicurezza. È chiaro che però tutto dipende da come i dati vengono presentati: il ricercatore medio non ha la tradizione, la formazione necessaria per organizzarli secondo schemi logici, perché possano poi essere riutilizzati.

Nei lavori scientifici pubblicati spesso non vengono riportati con precisione tutti gli aspetti che permettono di riprodurre una ricerca. 
Questo può avvenire per disattenzione o superficialità, ma può anche verificarsi il caso per cui qualche passaggio essenziale di un processo non venga riportato in modo completo per proteggere un risultato o una scoperta. Questo secondo caso è più comune quando si è in presenza di interessi commerciali legati al risultato. Inoltre va detto che i dati grezzi di lavori scientifici sono di interesse e di potenziale utilizzo solo per gli addetti ai lavori. È molto difficile che siano fruibili dai cittadini senza l’aiuto di una mediazione. La prassi dell’apertura e accessibilità del dato è fondamentale, ma non serve al cittadino in modo diretto, serve al sistema della scienza per garantire trasparenza e riproducibilità.
Tornando all’IA, essa si basa sui dati, quindi se i dati sono verificati, potranno generare l’avanzamento della conoscenza, ma se la loro qualità è discutibile, è difficile immaginare che se ne possa trarre giovamento.


Come tante cose anche l’Open Access presenta dei pro e dei contro e ci stiamo rendendo conto che i contro non sono proprio modesti; tutt’altro, in alcuni casi sono pesantissimi (pensiamo al fenomeno dei predatory journals).

Pensando a che cosa sia il ruolo di una rivista scientifica, mi piace fare una similitudine. Una confezione di vino di bassa qualità può costare un paio di euro, mentre una bottiglia di Dom Pérignon ne costa centinaia. Che cosa giustifica una tale differenza di prezzo? Si tratta pur sempre di una soluzione di etanolo in acqua! Ciò che fa la differenza è la qualità, e la qualità costa. Nel publishing non è diverso: la qualità costa, e il costo della qualità non cresce linearmente, ma esponenzialmente. Una rivista gestita bene, di successo comporta costi elevati. Il costo più alto è nella ricerca di revisori competenti e affidabili: se si ricevono decine o centinaia di lavori ogni giorno, bisogna cercare e contattare circa dieci, quindici esperti per ogni lavoro per trovarne due o tre che acconsentano a fare la revisione; un lavoro defatigante, soprattutto nei casi in cui la specificità dei manoscritti comporta la ricerca di peer-reviewer altamente qualificati. Su queste conoscenza e capacità professionale si basa la qualità della scienza, e questo è un bene che dobbiamo difendere a tutti i costi.

Gli strumenti di comunicazione si sono evoluti, innescando un veloce cambiamento e quindi è logico che sia in corso una fase di trasformazione, però è vero che chi ha spinto molto sul tema dell’Open Science – sacrosanto in linea di principio -, e in particolare dell’Open Access, lo ha fatto spesso da posizioni fortemente ideologiche, senza tenere conto di alcune conseguenze non positive.

Oggi, un ricercatore è chiamato a coprire ruoli molto diversi; una volta svolgeva la sua attività in laboratorio e la traduceva nella pubblicazione di un paper, ed era finita lì; ma un buon ricercatore che pratica l’Open Science deve anche saper comunicare al grande pubblico, avere competenze di gestione amministrativa, saper rendicontare, scrivere progetti, coordinare persone provenienti da paesi diversi, essere esperto di dati, conoscere i principi etici della scienza ecc. Lo spazio per la ricerca si riduce per fare posto a molte di queste attività.
Per questo serve anche formazione specifica.
Una formazione che deve partire da casi concreti e non tradursi in corsi teorici, meri adempimenti formali. I principi etici della scienza aperta vanno riscoperti e rivalutati, in quanto fondamentali, ma questo va fatto in maniera dinamica, concreta ed efficace.

Open Science @ UniMiB: l’in/formazione per il ricercatore in materia di scienza aperta

Con il fine di organizzare gli strumenti e i servizi, e di trasmettere in/formazione ai ricercatori del nostro Ateneo, nasce Open Science @ UniMiB: dal Data Management Plan al Green Open Access, vengono fornite in questo hub indicazioni concrete su come implementare la Scienza Aperta nella pratica della ricerca.

*Gianfranco Pacchioni è ordinario di chimica dei materiali presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca, attivo nel campo della chimica teorica e computazionale.
È membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’Academia Europæa (Londra), della European Academy of Sciences (Liegi), dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere (Milano) e della fondazione Alexander von Humboldt. Nel 2016 è stato insignito della Medaglia Pascal per la Chimica da parte della European Academy of Sciences e nel 2017 ha ricevuto la Medaglia Pisani della Società Chimica Italiana. Dal 2013 al 2019 è stato prorettore per la Ricerca in UniMiB. È Editor-in-Chief del “Journal of Physics: Condensed Matter”, pubblicato dall’Institute of Physics (IOP).