Lo Speakers’ Corner, la rubrica che nasce con la finalità di connettersi al dibattito sull’Open Science, accoglie oggi la sua prima ospite, Cristina Zogmaister*, per parlare di approccio alla scienza aperta e riproducibilità della ricerca scientifica.

D. Quando e come nascono il suo interesse per la scienza aperta e la particolare attenzione al tema della riproducibilità della ricerca?

R. La riproducibilità è una caratteristica distintiva della scienza, ma non si sa fino a che punto essa caratterizzi la ricerca attuale. Il mio interesse sul tema nasce quando la pubblicazione di diversi lavori, nell’ambito della psicologia ma non solo, portano all’attenzione della comunità scientifica la questione della riproducibilità, appunto, facendo letteralmente “scoppiare il caso”. Nel 2015, con l’articolo Estimating the reproducibility of psychological science, Brian Nosek e il gruppo Open Science Collaboration descrivono il tentativo di replicare una serie di studi sperimentali nell’ambito della psicologia: riuscirono a riprodurli solo nel 40% dei casi, la percentuale riscontrata degli studi non riproducibili fu altissima!
Lo scatenarsi di questa crisi ha avuto alcune conseguenze positive: si comincia a capire quali effetti siano robusti e quali no, emerge la necessità di cambiare gli standard di ricerca e di pubblicazione, cresce il livello di consapevolezza e attenzione agli aspetti metodologici e statistici.
Uno dei problemi degli studi che venivano condotti solo fino a dieci anni fa è che erano sottodimensionati, quindi non stupisce il fatto che si ottenessero risultati non riproducibili. La tendenza attuale è, invece, quella di aderire sempre più spesso a studi multi-laboratorio che coinvolgono ampie basi di soggetti. Gli studi grossi, da un lato, consentono di avere ricerche più solide, generalizzabili, dall’altro, permettono, grazie al riuso del dato, di studiare comportamenti o caratteristiche più rare che magari riguardano solo una piccola parte della popolazione. Questi obiettivi si possono raggiungere anche con le meta-analisi, ma ovviamente questo è possibile partendo dall’assunto che tutti gli studi che sono stati condotti siano attendibili, riproducibili, ma anche che siano stati pubblicati.

Credo fermamente nell’importanza di rinnovare il nostro modo di fare scienza, e il mio personale approccio alla crisi della riproducibilità mi ha portata, in un primo momento, a osservare quello che stava succedendo e, man mano, a trasferire nei miei studi tutta una serie di buone pratiche finalizzate alla trasparenza e alla replicabilità. Ora cerco anche di rendere tali azioni più visibili, facendomene ambasciatrice.

Nel 2018 qui in Bicocca abbiamo organizzato una giornata dedicata alla scienza aperta, “I benefici della crisi di riproducibilità. Nuovi standard di ricerca in psicologia”; Massimo Grassi, dell’Università di Padova che, con me, fu tra gli organizzatori della giornata, mi propose successivamente di collaborare all’avvio del nodo italiano del Reproducibility Network (ITRN), costituitosi poi nel 2021 e, dal 2 gennaio 2023, diventato associazione non-profit con lo scopo di sostenere e promuovere le pratiche della scienza aperta.

D. Come si concretizza attualmente il suo impegno riguardo all’Open Science sia in ambito strettamente accademico sia al di fuori di esso?

R. Cerco il più possibile di attuare all’interno delle mie ricerche le buone pratiche e credo molto nella ricerca collettiva. Gli studi collettivi possono essere di varia natura, dai multi-lab a quelli che prevedono gruppi di ricercatori che collaborano per le ri-analisi di dati, seguendo diversi approcci. Finora ho cercato di accumulare esperienza, prevalentemente partecipando a iniziative che sono state organizzate da altri scienziati, mettendo a disposizione le mie risorse e facendo parte degli esercizi di raccolta che di volta in volta venivano proposti. Attualmente sono pronta e orientata alla programmazione e proposizione in prima persona di studi multi-laboratorio da estendere, poi, alla collaborazione di gruppi in tutto il mondo. Riuso, aggregazioni e integrazioni di dati provenienti anche da fonti diverse, ampliamento dei campioni di studio sono tutte premesse per la creazione di nuove opportunità.

Con l’ITRN in questo momento ci stiamo dedicando prevalentemente a iniziative di docenza per i dottorandi e cerchiamo di fungere da collettori di proposte da rifondere poi nella comunità italiana.
In Bicocca stiamo sviluppando le “pillole di Open Science” dedicate agli studenti delle scuole superiori: brevi video di spiegazione, ciascuno dedicato a un particolare aspetto dell’Open Science. Il presupposto è che, capendo come si può fare scienza aperta e trasparente anche al di fuori dell’università, le persone possano acquisire più fiducia nei confronti della ricerca scientifica.

Prossimamente comincerò uno studio pilota con gli studenti di una classe quinta della scuola primaria: i bambini saranno coinvolti e invitati a pensare a una ricerca e le “pillole” serviranno ad aiutarli a progettare e poi a realizzare la loro ricerca in tutte le sue fasi (formulare un’ipotesi, registrarla, rendere trasparenti le scelte compiute ecc.). Quello che mi piacerebbe osservare è in che modo cambia, se mai, l’atteggiamento dei piccoli studiosi nei confronti della scienza, partendo da questa ricerca e misurando l’atteggiamento prima e dopo.

D. Parliamo della platea dei giovani ricercatori: da dove cominciamo per rendere da subito la scienza aperta una pratica condivisa?

R. La prima cosa è far capire perché è importante, a beneficio della scienza in generale, che i dati siano disponibili e trasparenti, e poi chiarire quali sono i vantaggi della scienza aperta per il singolo ricercatore.
Già proporre per la pubblicazione un articolo scientifico corredato di dati aperti genera tra i revisori una fiducia maggiore nei risultati. Questa è un’esperienza che ho maturato ricoprendo entrambi i ruoli, sia quello dell’autore sia dell’editor/reviewer.
È riportato in letteratura che gli articoli con dati disponibili e aperti ricevono un maggior numero di citazioni. Visibilità e disseminazione rappresentano un elemento importante, non solo per la diffusione della nostra ricerca, ma anche per l’avanzamento della carriera. Rendere accessibili i dati favorisce la probabilità di essere coinvolti in collaborazioni, il che, di nuovo, può voler dire pubblicazioni, instaurando in questo modo una sorta di circolo virtuoso. È fondamentale rendere consapevoli i ricercatori dei vantaggi collettivi e individuali e altrettanto lo è informarli del fatto che esistono figure professionali (come il data curator e il data steward) la cui funzione è proprio quella di supportare il deposito FAIR dei dati in un repository. L’uso delle licenze è un altro buon punto su cui sarebbe utile fornire aiuto agli studiosi, che spesso sono completamente spaesati davanti alle questioni relative alla proprietà intellettuale, ai diritti e alla loro gestione.

D. Partendo dal suo scritto del 2018, “La condivisione dei dati deve diventare prassi comune per la ricerca psicologica”, anteriore evidentemente alla pandemia da Covid-19 che ha rappresentato un momento nevralgico nel sottolineare l’importanza della scienza aperta, quali sono, tutt’oggi, le cause della riluttanza al data sharing e, a suo parere, quale tra queste rappresenta l’ostacolo maggiore?

R. La riluttanza c’è sempre, chi aveva timore di condividere i dati prima, continua ad averne. Ma perché? Le questioni sono due: siamo sempre oberati di lavoro e condividere il dato implica attività e risorse aggiuntive e, in più, si ha l’impressione di dedicarsi a una prassi più amministrativa che di ricerca. Si fa fatica a giustificare un tale investimento di tempo. Una seconda preoccupazione è legata al riesame: “e se mi trovassero un errore?”, è certamente una situazione che si potrebbe verificare, ma sarebbe anche facilmente arginabile. 
Alcuni impedimenti sono anche oggettivi: se non si è pensato dall’inizio alla possibilità di condividere il dato e, per esempio, non è stato creato un foglio di consenso informato o se in tale foglio è stata dichiarata la non condivisione, allora l’apertura a posteriori diventa impossibile.
Sono molto frequenti i casi in cui non sia del tutto possibile risalire ai dati, è per questa ragione e per motivi di sicurezza, garanzia di persistenza nel tempo, visibilità che essi vanno depositati in un repository, anche quando non possono essere aperti o se possono esserlo solo a condizioni che vengano soddisfatti determinati criteri.

D. Qual è la strategia efficace, a suo avviso, per diffondere e consolidare le pratiche della scienza aperta?

R. Credo che sia, prima di tutto, necessario continuare ad agire per accrescere la consapevolezza sui vantaggi individuali e collettivi dell’adesione alle pratiche della scienza aperta, ma che abbia anche senso effettuare interventi di policy per sostenere l’adesione alle pratiche della scienza aperta. I bandi di finanziamento alla ricerca richiedono spesso che i dati siano essere resi disponibili/depositati; le riviste spesso richiedono, nelle istruzioni per gli autori, che i dati vengano messi a disposizione, anche se poi non sempre mettono in pratica questa policy, demandando il controllo a editor o reviewer. Sarò banale, ma penso che la strategia da seguire sia quella del bastone e della carota: da un lato rendere più difficile svolgere ricerche senza trasparenza e dall’altro dare evidenza ai vantaggi che derivano dalla pratica dell’Open Science.

Tenere conto delle pratiche della scienza aperta e della riproducibilità della ricerca nella valutazione delle carriere rappresenterebbe un incentivo fondamentale alla loro diffusione e l’ITRN sta già lavorando per perseguire questo risultato a livello internazionale. Se ne riparlerà: essendo ANVUR firmataria di CoARA per la revisione delle pratiche di valutazione, magari avremo novità già per la prossima VQR.

Vorrei chiudere lasciando un consiglio a chi inizia: è fondamentale conoscere i vari tipi di pratiche che si possono mettere in atto, apprendere le azioni, avvalersi dei servizi che si hanno a disposizione, anche all’interno del proprio ateneo, e decidere di volta in volta quali siano le più adatte alla propria ricerca. Rendere disponibili e trasparenti i dati, ma anche i materiali, rendere ad accesso aperto gli articoli sono solo alcune delle prassi da attuare. Bisogna iniziare senza avere paura di sbagliare e provare, anche azioni nuove, magari partecipando a un gruppo, entrando in una comunità che favorisce lo scambio, sempre fruttuoso. 


Riferimenti bibliografici:

  • Open Science Collaboration (2015). Estimating the reproducibility of psychological science. Science 349, aac4716. DOI: 10.1126/science.aac4716
  • Zogmaister, C. (2018). La condivisione dei dati deve diventare prassi comune per la ricerca psicologica. Data sharing must become common practice for psychological research. Giornale Italiano di Psicologia, 45(4), 733-746. DOI: 10.1421/92986

Per approfondire:  

  • Gleditsch, N. P., Metelits, C., & Strand, H. (2003). Posting your data: Will you be scooped or will you be famous. International Studies Perspectives, 4(1), 89-97.
  • Henneken, E. A., & Accomazzi, A. (2011). Linking to data-effect on citation rates in astronomy. arXiv preprint arXiv:1111.3618.
  • Ioannidis, J., Allison, D., Ball, C. et al. Repeatability of published microarray gene expression analyses. Nature Genetics 41, 149–155 (2009). https://doi.org/10.1038/ng.295
  • Leitner, F., Bielza, C., Hill, S. L., & Larrañaga, P. (2016). Data publications correlate with citation impact. Frontiers in neuroscience, 10, 419.
  • Pienta, A. M., Alter, G. C., & Lyle, J. A. (2010). The enduring value of social science research: The use and reuse of primary research data.
  • Piwowar, H. A., Day, R. S., & Fridsma, D. B. (2007). Sharing detailed research data is associated with increased citation rate. PloS one, 2(3), e308.
  • Piwowar, H. A., & Vision, T. J. (2013). Data reuse and the open data citation advantage. PeerJ, 1, e175.
Cristina Zogmaister
Cristina Zogmaister
*Cristina Zogmaister si è laureata in Psicologia all’Università di Padova, dove, nel 2005 consegue anche il dottorato di ricerca in Scienze Cognitive. Assegnista di ricerca in Psicologia presso l’Università di Padova (2005-2008) e, dal 2008 al 2015, ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, sempre in UniMiB, dal 2015, è professoressa associata in Psicometria. La sua ricerca spazia nei campi della misurazione psicologica, della previsione del comportamento e della cognizione sociale. È particolarmente interessata alla psicologia degli atteggiamenti dei consumatori, soprattutto a quelli sottostanti ai consumi sostenibili, alla misurazione diretta e indiretta della personalità, all’Open Science e alla riproducibilità della ricerca scientifica.